Pura Velocità

L'emozione di guidare uno Sport Prototipo Norma M20 FC.

Chi ama le auto difficilmente riesce a star lontano dai circuiti molto a lungo. Personalmente la mia indole irruenta (solo a visiera abbassata, s’intende…) si è sempre sposata meglio con la guida sporca, un po’ da “Hoonigan”, di conseguenza la mia attenzione per il motorsport è sempre stata attirata dal mondo dei Rally e, soprattutto, da quello del drifting.

Chi mi conosce questo lo sa, ma sa anche che qualche mese dopo aver preso la patente, quando non ero impegnato a scoprire i limiti di aderenza (peraltro facilmente raggiungibili con gli pneumatici “di legno” che avevo installati) e l’equilibrio della mia amata Silvia S14a nelle zone industriali deserte, mi recavo in un kartodromo a qualche chilometro di distanza dalla mia abitazione, dove cercavo di far fruttare l’investimento di qualche centinaia di euro, con i quali avevo acquistato un vecchio kart 100 cc. All’epoca la tentazione di iniziare subito con il 125 cc a marce era forte, ma degli amici ben più esperti di me mi consigliarono di prendere un buon 100, con un motore che spingesse bene e ad alti giri, grazie al quale mi sarei senz’altro divertito di più. In effetti quando iniziai ad usarlo capii bene il perché di quei consigli: il “centino” andava quasi come un 125 ma la guida era diversa, più da bloccaggio ponte posteriore e “butta dentro” che da “frena, scala, imposta ed evita le sbavature in percorrenza di curva”. Fatto sta che quel piccolo telaio con un frullino che mi urlava nelle orecchie mi ha dato molte emozioni ma, soprattutto, ha avuto il grande merito di iniziarmi alla “pista”.

La guida in circuito a chi non l’ha mai provata può sembrare quasi banale, noiosa, ma chi ci gira spesso sa bene quanto sia appagante e quanta assuefazione possa dare. Tutto diventa un’ossessione; vedere il tuo equipaggiamento ed anche solo sentirne il profumo dà già un piacere inebriante, perché in qualche modo ti permette di sfiorare il sogno che hai sempre avuto: quello di essere un pilota da corsa. La tuta, il casco, guanti e scarpini ti fanno sentire quasi un cavaliere d’altri tempi, la cui vestizione è un momento sacro prima di affrontare la battaglia; quella con il tempo, con la velocità, con i tuoi limiti e, Dio non voglia, con qualche muro o pneumatico posto a bordo pista. Dopo tanto divertimento ed ancora più “numeri” con memorabili piroette alla massima velocità in pieno rettilineo e “cortine fumogene” provocate dalle nuvole di terra alzate dai numerosi fuoripista (l’ho detto che, a visiera abbassata, sono irruento…) l’età e la vita mi hanno costretto ad appendere il casco al chiodo, ma senza mai riuscire a sopire l’irresistibile dipendenza dalla velocità e dalle vibrazioni positive che solo i motori sono sempre stati in grado di darmi.

A dire il vero il casco l’ho usato abbastanza spesso ma solo per giocare con i kart a noleggio, quei carrelli per la spesa con le protezioni in gomma che vanno meno di una Trabant in salita, e per qualche divertente Track day con la mia piccola Silvia, ma non avevo più avuto modo di indossare tutto il mio “corredino” da competizione per usarlo in una vera auto da corsa.

Questo, fino a qualche giorno fa…

Grazie ad una bella occasione sono infatti riuscito a mettermi alla guida di uno di quei mostri che vengono simpaticamente chiamati “barchette” ma che sono usati per divorare chilometri di asfalto in salita su tracciati tortuosi quanto il vecchio Nürburgring in scala ridotta, e che sotto il vestitino leggero di materiale plastico o fibra di vetro hanno un telaio in carbonio e tutta la tecnologia di cui dispongono i Formula a ruote scoperte usati per demolire i record dei tracciati di tutto il mondo.

L’esemplare messo a disposizione da “Passione GT” era una Sport Prototipo Norma M20 FC equipaggiata con un 2 litri Honda aspirato da circa 260 cavalli di potenza. Per chi pensasse che fossero pochi è necessario specificare il peso della “iena” in questione: 525 kg. Il solo rapporto peso potenza di 2 kg/cv non è esaustivo a far comprendere le emozioni che dona e le prestazioni di cui è capace una vettura di questo tipo che, a seconda dei rapporti utilizzati, raggiunge i 100 all’ora in 3 secondi e mezzo per poi proseguire la sua corsa fino a toccare i 300 orari. Come se non bastasse, ad aumentare il disagio indotto dalle potenzialità del mezzo meccanico, ci ha pensato anche il suo pedigree: la piccola “Norma” è stata infatti vice campione di Francia nella disciplina delle gare in salita con il pilota Sebastien Petit.

Il piccolo autodromo di Castelletto di Branduzzo, immerso nella campagna pavese, ha accolto me e gli altri driver in un clima abbastanza rigido per un’assolata domenica di inizio autunno, ma l’adrenalina e le aspettative per l’imminente esperienza sono senz’altro riuscite a compensare la bassa temperatura che è definitivamente passata in secondo piano quando ho visto parcheggiata, a pochi metri da me, la sottile carena acquattata sui piccoli cerchi OZ multirazze avvolti da pneumatici slick di quelli che, raggiunta la giusta temperatura, si “appiccicano” all’asfalto più di quanto riuscirebbe a fare una Big Bubble.

Dopo un breve briefing, nel corso del  quale ci viene spiegato quanto sia facile sbagliare le cambiate a causa dell’innaturalità nel dover attendere che i giri al minuto del propulsore da competizione raggiungano un valore prossimo al limitatore, è il momento di passare al sacro rito della vestizione.

C’è da dire che gli anni passano inesorabili e, a differenza di quanto accade con i software e gli hardware che vengono quotidianamente implementati e resi più efficienti e prestazionali, la natura umana prevede che il decadimento fisico dal decennio dei 20 a quello dei 30 anni sia tale da non poter pretendere che una tuta da kart acquistata 10 anni prima possa ancora riuscire a contenere le dimensioni aumentate dell’ambizioso driver dopo tanti anni di pensieri, stress, cene e gravidanze (sì, sono un uomo, ma non sono da sottovalutare gli effetti della solidarietà dimostrata alla propria consorte nei 9 lunghissimi mesi di gestazione). Per questo motivo, da sacro rito della vestizione, l’operazione ha assunto i contorni di “tortura e martirio” per il sottoscritto, ma ha senz’altro contribuito ad alleviare la tensione dei miei compagni di ventura, i quali hanno potuto godere di scene esilaranti, tra le quali le mie lunghe apnee necessarie al pietoso atto della chiusura della lampo che, fortunatamente, ha dato prova di grande resistenza (grazie Sparco).

Dopo svariati test per valutare la robustezza delle cuciture dell’indumento da competizione, penosamente mascherate da stretching propedeutico alla prova atletica in cui mi stavo per cimentare, arriva finalmente il momento di calarmi nel piccolo abitacolo del prototipo, già caldo per i giri effettuati con un altro driver che ha gentilmente preparato gli pneumatici portandoli ad una temperatura più consona all’utilizzo che spero di fare della piccola monoposto.

L’interno dell’abitacolo appare come un “buco nero” di fibra di carbonio: nemmeno riesco a scorgere il profilo del sedile sul quale sto cercando di trovare l’appoggio per le mie natiche. Una volta incastrato nel minuscolo posto di guida vedo la pedaliera ed il volante sul quale sono presenti una moltitudine di comandi dei quali ignoro completamente la funzione ed il bilanciere che mi consentirà di cambiare rapporto quando (speriamo…) capirò essere il momento giusto per farlo.

C’è da dire che gli anni passano inesorabili e, a differenza di quanto accade con i software e gli hardware che vengono quotidianamente implementati e resi più efficienti e prestazionali, la natura umana prevede che il decadimento fisico dal decennio dei 20 a quello dei 30 anni sia tale da non poter pretendere che una tuta da kart acquistata 10 anni prima possa ancora riuscire a contenere le dimensioni aumentate dell’ambizioso driver dopo tanti anni di pensieri, stress, cene e gravidanze (sì, sono un uomo, ma non sono da sottovalutare gli effetti della solidarietà dimostrata alla propria consorte nei 9 lunghissimi mesi di gestazione). Per questo motivo, da sacro rito della vestizione, l’operazione ha assunto i contorni di “tortura e martirio” per il sottoscritto, ma ha senz’altro contribuito ad alleviare la tensione dei miei compagni di ventura, i quali hanno potuto godere di scene esilaranti, tra le quali le mie lunghe apnee necessarie al pietoso atto della chiusura della lampo che, fortunatamente, ha dato prova di grande resistenza (grazie Sparco).

Dopo svariati test per valutare la robustezza delle cuciture dell’indumento da competizione, penosamente mascherate da stretching propedeutico alla prova atletica in cui mi stavo per cimentare, arriva finalmente il momento di calarmi nel piccolo abitacolo del prototipo, già caldo per i giri effettuati con un altro driver che ha gentilmente preparato gli pneumatici portandoli ad una temperatura più consona all’utilizzo che spero di fare della piccola monoposto.

L’interno dell’abitacolo appare come un “buco nero” di fibra di carbonio: nemmeno riesco a scorgere il profilo del sedile sul quale sto cercando di trovare l’appoggio per le mie natiche. Una volta incastrato nel minuscolo posto di guida vedo la pedaliera ed il volante sul quale sono presenti una moltitudine di comandi dei quali ignoro completamente la funzione ed il bilanciere che mi consentirà di cambiare rapporto quando (speriamo…) capirò essere il momento giusto per farlo.

Il comando a pedale della frizione è utile solo a far partire il veicolo e, dopo aver mosso i primi metri, potrò dimenticarmi della sua esistenza. Vengono collegati i morsetti per l’accensione ed alzato il switch dello starter; apro un po’ il gas, premo il pulsante di avviamento ed il propulsore prende vita. Le vibrazioni ed il rumore sordo del motore invadono l’abitacolo ed il casco, nonostante il materiale fonoassorbente, nulla può contro la prossimità del mio capo agli organi meccanici in movimento. Una volta in marcia combatto per qualche secondo con il leggero lasco della trasmissione che tende a far procedere a singhiozzo la vettura ma una volta “tarato” il piede il problema viene risolto. Percorro il primo giro di pista molto lentamente in quanto, nonostante abbia già effettuato un giro da passeggero per studiare il tracciato, non ho memorizzato le curve ed i vari “scollinamenti” presenti. Il circuito di Castelletto di Branduzzo è davvero tortuoso ed interessante: le curve sono molte e di diverso raggio ed i cambi di quota esigono un approccio tecnico ma, una volta imparato dove si può esagerare, è un piacere mettere in crisi l’assetto giocando con l’acceleratore per scoprire quanto le pendenze influiscano sull’aderenza alle alte velocità. Dal lato opposto ai box si trova l’ultimo tornante, abbastanza ampio, che immette nel breve rettilineo sul quale si raggiungono molto rapidamente velocità prossime ai 200 orari. E’ proprio qui, percorrendo il rettifilo, che l’esperienza di guida con il prototipo assume un valore davvero notevole. In accelerazione la trasmissione esige di passare al rapporto successivo con il motore a pieni giri, è quindi necessario scaricare ogni cavallo di potenza sull’asfalto per poter usare il paddle di destra un paio di volte, al fine di passare alle marce successive, per raggiungere velocità elevatissime con il vento che, da assente, diviene una forza impetuosa che tenta di strapparti il casco dalla testa sovrastando parzialmente, con il frastuono del suo vortice, le urla indiavolate del 2 litri che chiede di essere maltrattato ancora un po’; questo, prima che la vista dei cartelli a bordo pista che indicano i metri mancanti alla prossima curva faccia appello al tuo istinto di sopravvivenza ed implori il piede destro di prendere a calci pedale del freno, consentendo alla vettura di voltare in un’ampia curva a sinistra e ricominciare la sua danza a bassa velocità nella parte guidata della pista.

In tutti i passaggi effettuati è sempre sul rettilineo che l’adrenalina sale a dismisura, laddove le vibrazioni indotte al rigido telaio dall’asfalto irregolare, la spinta ed il suono del propulsore a pieni giri ed il vento che tenta inutilmente di frenare il folle desiderio di velocità permettono al piccolo prototipo di farti sentire davvero al limite della fisica e delle tue capacità cognitive, facendo decadere inesorabilmente il limite di sicurezza percepito in ogni altro punto della pista. Percorrendo il resto del tracciato, infatti, viene raccomandato di non esagerare con le acrobazie e, in generale, con la confidenza in quanto, nei pochi giri a disposizione, non si può certo pensare di conoscere il comportamento dinamico di una vettura da competizione sulla quale non si è mai saliti prima; ma sul rettilineo, in quei pochi secondi di folle corsa al limite, cambia davvero qualcosa: la coscienza di sé, la misura in cui senti di essere padrone di te stesso e delle tue azioni cambiano, lasciando il posto alla consapevolezza che la convinzione di avere un ruolo così fondamentale nel tuo destino è una semplice illusione.

Terminato questo emozionante ritorno in monoposto tengo a precisare che non mi sono convertito alla guida pulita e precisa, innamorandomi della pura velocità a discapito dell’arte del curvare in “derapage”, che sono tutt’ora convinto rappresenti la più alta espressione di controllo sul mezzo, dimostrazione di sensibilità e di conseguente massimo divertimento raggiungibile, ma è innegabile il fatto che sia stata un’esperienza magica quella di tornare a provare l’ebbrezza della “velocità assoluta”, senza filtri di sorta fra te, il mezzo meccanico e la natura con i suoi limiti fisici da sfidare. In qualche modo è un’esperienza formativa, utile a farti tornare con i piedi per terra, ricordandoti quanto minuscolo e ristretto sia il tuo “campo visivo” di fronte alla grande potenza della natura e della sua fisica.

L’insegnamento credo stia proprio nel rendersi conto che le cose che più ci attraggono sono quelle che rappresentano una sfida, e quella con la pura velocità, tanto amata e perennemente inseguita, affascina particolarmente proprio perché è in grado di spogliarti dalle tue certezze, dalla sicurezza in te stesso maturata in anni di esperienza e riflessione, da una lente a contatto che, con i condotti di aerazione del casco aperti, a 200 allora desidera ardentemente lasciare la sua sede per farti completare un’esperienza di guida su un prototipo con un occhio che ancora vede dove stai andando e l’altro no.

Articolo scritto da:
Antonio Polizzi
Torna in alto