La magia di Ayrton

Il 21 marzo è un giorno che amo; credo rappresenti uno dei momenti più lieti dell’anno solare perché sancisce la fine dell’inverno ed il ritorno alla vita, al risveglio della natura che porta con se tutta la bellezza dei suoi colori. L’aria, seppur ancora fresca, inizia a mitigarsi quando il sole decide di non farsi adombrare da nuvole passeggere ed i suoni e gli odori che investono i nostri sensi ricordano anche a noi che la letargia invernale, pur ignorata grazie alle mille distrazioni ed agli artifizi che la civiltà ha escogitato per mantenere viva e attiva l’opera umana a dispetto delle avversità climatiche, sta per terminare ed un nuovo ciclo di vita è in procinto di avere inizio.

Questa data, che per me ha sempre avuto un significato ed un “sapore” straordinari, è stata anche l’inizio di una vita speciale; quella di un uomo che, nel corso della sua esistenza, è stato impareggiabile esempio di forza, sensibilità e volontà a migliorare se stesso sempre e in tutto, ma in particolare nel fare ciò che amava di più: guidare auto da corsa.

Il 21 marzo del 1960 venne donato al mondo un uomo capace di sognare e di far sognare, di emozionarsi ed emozionare, di vincere e di far sentire vincenti milioni di persone che deliberatamente sceglievano di isolarsi dalle loro vite per un paio d’ore alla domenica, guardando i Gran Premi di Formula 1, con il solo fine di vedere ciò che sarebbe riuscito a fare quel ragazzo dalla faccia pulita e dall’espressione quasi angelica: sto parlando di Ayrton Senna.

Il suo nome di battesimo evocava velocità al solo pronunciarlo; la musicalità di cui era dotato faceva sì che quando lo si sentiva annunciare sembrava stesse transitando una F1 di quelle vere, dei bei vecchi tempi, con il V12 a pieni giri, che si allontanava velocemente da chi stava proferendo quel sostantivo.

Il suo cognome era da Silva, comunissimo in Brasile e poco incisivo per uno che, in cuor suo, sperava già agli albori della sua carriera di diventare ciò che è stato; per questo motivo scelse di utilizzare quello della madre, di origini francesi, che oltre alla grazia ed all’armonia nel suono aveva un altro fattore evocativo: quell’iniziale formata da una linea che, sinuosa, unisce due curve strette, come quelle che lui amava affrontare a folli velocità, magari sul bagnato e con una mano sola sul volante, mentre l’altra era pronta a manovrare il comando a cloche del cambio meccanico della sua McLaren.

Quell’uomo era ed è rimasto, per me come per molti altri, un vero e proprio esempio, nonostante io non sia incline a trovare di ispirazione personaggi noti e, soprattutto, sportivi.

Lui però era diverso

Probabilmente a causa della mia formazione “tecnica” ho sempre immaginato che ogni uomo abbia in se due elementi tipici degli strumenti di misura: la sensibilità e la portata. Per sensibilità non c’è bisogno di spiegazioni, mi riferisco alla capacità di un essere umano di percepire una pur minima variazione di un fenomeno fisico o di uno stato emotivo proprio o altrui; mentre per portata, riferendomi ad un uomo, la assimilo al concetto generico di “forza”: quanto cioè riesce a sopportare, a quanto arriva il suo “fondo scala” sia in termini fisici che, soprattutto, in termini mentali e spirituali.

Ai miei occhi, quindi, il valore di un uomo sta nell’esser dotato, contestualmente, di tali caratteristiche e tanto più sono accentuate quanto più stimo il soggetto che le possiede.

Ecco il vero motivo per il quale il mio ammirare immensamente Ayrton non è mai stata una semplice adorazione di un personaggio in grado di fare cose al volante che nessun altro, secondo alcuni, è mai riuscito a fare, perché anche queste inarrivabili capacità di pilota erano espressione e derivazione degli altissimi valori di sensibilità e forza racchiusi in quel ragazzo dagli occhi scuri, sempre dolci ma decisi ed appassionati.

Già sin dagli inizi della sua carriera in Formula 1, che per motivi anagrafici non posso ricordare ma solamente valutare per quanto mi è stato raccontato ed ho potuto vedere e sentire sul conto di Magic, era evidente quanto fosse un ragazzo diverso. In lui, di famiglia benestante che gli aveva dato tutte le possibilità del caso ma che egli aveva sempre saputo sfruttare con intelligenza, c’era la semplice voglia di correre e competere senza ciò che spesso, in una qualche misura, è presente in tutti i piloti (e non solo in questi): la necessità (materiale) e la voglia di riscatto (o di autoaffermazione). Ayrton era ben cosciente di essere un privilegiato e poteva permettersi di fare i passi che ha fatto nella sua carriera senza timore reverenziale verso alcuno perché mai avrebbe perso la dignità o la coerenza ai suoi principi per un sedile di una monoposto da competizione; se era lì era solo perché voleva correre, e vincere.

Da queste premesse si comprende il perché non amasse la politica presente in Formula 1, contro la quale ha sempre lottato e, dopo battaglie che avrebbero annientato chiunque, dentro e fuori i circuiti di tutto il mondo, ha vinto non senza grande fatica e patimento.

Il primo dei tanti esempi di quanto la politica “pilotasse”, in luogo di quanto avrebbero dovuto fare i driver ed i team, i risultati dei Gran Premi fu quel primo GP di Monaco del 1984 sul bagnato con la lenta Toleman,  che gli permise di rimontare posizioni su posizioni e di arrivare a guadagnare 3 secondi al giro sull’allora Vice Campione del Mondo Alain Prost (su McLaren). La gara venne interrotta, su richiesta dello stesso Prost, al comando, per troppa pioggia poco prima che il novellino umiliasse – più di quanto non avesse già fatto – il Professore. Quel secondo posto fu ben digerito dal brasiliano anche perché, per quanto gli si fosse voluta negare la vittoria che sarebbe arrivata senza l’inopportuna interruzione, la sua prestazione aveva sbalordito il mondo intero, ed una prova di superiorità di quelle proporzioni, nonostante la non competitività del mezzo, era un qualcosa di incredibile forse anche per Ayrton stesso.

L’anno successivo il brasiliano fu ingaggiato dalla Lotus, che con la sua splendida livrea nera e oro della John Player Special vide Magic per la prima volta sul gradino più alto del podio dopo la gara, sempre sotto il “diluvio universale”, svoltasi all’Estoril in Portogallo.

Nel 1988 finalmente il casco giallo con banda verde e blu si accostò al rosso e al bianco della tipica livrea Marlboro con cui la McLaren gareggiò per tanti anni. E’ così che io ho conosciuto, seguito e amato le gesta di Ayrton ed è così, e solo così che amo ricordarlo.

Negli ultimi anni del decennio ’80 Magic rimase lo stesso ragazzo che pochi anni prima era approdato alla F1 dalla Formula Ford: stessi occhi, stesso sorriso ed il medesimo piglio entusiasta, diretto e sincero, ma dopo la grande soddisfazione per il conseguimento del primo titolo mondiale del 1988, ciò che gli venne sottratto nel 1989, a causa della stessa politica che qualche anno prima lo privò della vittoria a Monaco con la Toleman, fu troppo anche per lui. Nel Gran Premio decisivo di Suzuka, in Giappone, Prost causò l’incidente che avrebbe dovuto portare al ritiro di Senna regalando al francese il titolo mondiale. Nonostante ciò Ayrton riuscì a ripartire e a vincere gara e titolo dopo una rimonta spettacolare ma venne squalificato (privandolo del secondo titolo iridato ed assegnandolo, a tavolino, al Professore) perché ripartendo dal fuori pista tagliò la chicane. Fu palese a tutti lo scempio a cui si stava assistendo, e persino la McLaren, squadra di entrambi gli attori di quest’alterco, si schierò apertamente dalla parte del brasiliano. Ma la politica della F1, a quel tempo, parlava francese e l’evidenza nulla poté contro l’interesse e le illustri amicizie.

Forse fu a causa di questo fatto che l’espressione di Ayrton cambiò visibilmente. Dal 1990 in poi apparve più “uomo” e meno ragazzo, più complesso, maturo ed introspettivo. Io lo ricordo così, con gli occhi intensi di sempre ma malinconici, che danno l’idea di porre un filtro tra l’Ayrton conosciuto sino ad allora e la realtà, difficile, che lo circondava nel mondo della Formula 1. E, anche se può apparire strano, è in questo periodo che il suo fascino aumenta a dismisura. Non è mai stato un uomo semplice da capire, ma ora dava l’impressione di essere più pronto ai colpi bassi, più preparato ad affrontarli e a studiare le contromosse; non per ragioni che spingerebbero qualsiasi umano, vale a dire per rivalsa o mero desiderio di raggiungere i propri obiettivi, ma per affermare i valori che l’avevano portato lì, dove aveva sognato essere sin da bambino. Era come se avesse imparato a fare meglio di chiunque altro ciò che prima lo metteva in difficoltà. Come quando, da ragazzo sui kart, non amava correre sul bagnato. Anche in quel caso diede prova eccellente della resilienza che lo ha sempre contraddistinto: dal trauma o dalla situazione di svantaggio, tramite il duro lavoro e la volontà di migliorarsi come uomo, ha saputo far diventare quelle condizioni di guida le sue preferite, quelle che gli consentivano di evidenziare ancora di più le sue doti di guida paragonandole con quelle altrui.

La sua guida… di lui dicevano che non avesse uno stile di guida ben preciso, a meno che l’esser veloce non potesse esser considerato tale. Rimarranno sempre impresse nella mia memoria le movenze dolci ed aggraziate del volante nel percorrere le chicane, per poi passare alle nevrasteniche correzioni di traiettoria con una sola mano sul volante e l’altra sulla leva del cambio meccanico, che amava così tanto. Aveva la grande capacità di adattarsi alle condizioni e questo lo ha sempre contraddistinto e fatto comprendere, a chi aveva a che fare con lui, il grado della sua intelligenza. Assieme alla sensibilità ed alla sua grande forza Ayrton era senz’altro portatore di un’intelligenza, una capacità di intus legere le situazioni e le persone senza eguali.

Senna era e rimane un esempio anche per altre caratteristiche importanti, che io reputo fondamentali in un uomo: l’equilibrio e la fiducia. In ogni suo discorso e comportamento l’equilibrio manifestato era sintomo ed espressione di uno stato di consapevolezza di se notevole. Era come se vivesse la vita esattamente come riusciva a correre sul bagnato: in costante equilibrio tra l’assenza di aderenza e la capacità di tenere la linea ideale delle traiettorie; e lo faceva con una tale sicurezza sulla pista, come nella vita, che sembrava fosse facile.

Quando parlo di fiducia, invece, intendo la sua grande fede. Oggi, in anni in cui la comunicazione ha assunto livelli di studio e maturato tecniche tali da riuscire ad esser efficace nonostante non vi siano contenuti da divulgare, in molti potrebbero pensare che il suo riferirsi spesso a Dio potesse essere un atteggiamento esagerato, rasente all’esaltazione e studiato per far parlare maggiormente di se; ma chi lo conosceva bene sapeva quanto Ayrton fosse sincero e consapevole della sua finitezza come uomo che lo costringeva ad affidarsi a qualcuno di superiore perché, per quanto potesse fare l’impossibile per riuscire in un’impresa, sapeva che non tutto sarebbe stato nelle proprie mani. Anche grazie a questo il suo fascino era davvero inarrivabile e nell’immaginario di tutti, oggi come allora, quell’uomo è un pò più in alto di un semplice mortale capace di gesta eroiche in vita.

Dopo questa “maturazione”, per così definirla, del grande Magic, nel 1990 Ayrton ebbe il modo e la capacità di recuperare ciò che l’anno precedente gli sottrassero: il titolo mondiale. Sfortunatamente per il brasiliano questo titolo giunse non senza polemiche in quanto centrò l’obbiettivo grazie a un incidente (che, a onor del vero, difficilmente si potrebbe a lui stesso imputare nonostante non manchi chi l’abbia fatto in passato e lo sostenga tutt’oggi), sempre a Suzuka, che coinvolse ancora Alain Prost. Sul fatto i media ed i detrattori si scagliarono contro il brasiliano che, però, riuscì a reggere bene le pressioni e nel 1991, con una McLaren che iniziava a zoppicare di fronte alle arrembanti e supertecnologiche Williams, riuscì nuovamente a coronare il suo sogno mondiale. Nella mia memoria è enormemente rappresentativo l’episodio accaduto al “suo” Gran Premio del Brasile, che fino ad allora mai lo aveva visto esultare sul gradino più alto del podio, vinto con un’auto a cui mancavano i primi 5 rapporti. Magic riuscì a vincere con un mezzo a cui era rimasta la sesta marcia e, vista con gli occhi di chi oggi è abituato ai ritiri in F1 causati da surriscaldamenti anomali segnalati dalla telemetria o perché qualche dispositivo elettronico fa decadere di qualche punto percentuale le prestazioni del veicolo, è abbastanza impressionante. Ayrton riuscì, pur al limite delle sue forze fisiche e psicologiche, a portare a termine quella gara, e a vincerla, con il solo sesto rapporto, sempre per dimostrare quanto, con la propria volontà e forza, potessero esser raggiunte mete impensabili.

I due anni seguenti furono difficili per il campione Brasiliano. La McLaren non era più quella di un tempo e la tecnologia, entrata prepotentemente nella Formula 1 con dispositivi quali l’anti slittamento, le sospensioni attive, l’abs ed i cambi semiautomatici, non riduceva il gap tra piloti bravi ed eccelsi, ma ribaltava gli equilibri. L’auto iniziava a contare molto più dell’abilità del pilota e per l’ennesima volta Ayrton dovette subire sconfitte pesanti sia per la sua fame di vittorie, che per la sua sete di giustizia, che voleva fosse la bravura a decidere chi avrebbe vinto, e non la maggior scaltrezza o fortuna. Nel 1993, l’ultimo anno in McLaren, emblematica fu la prestazione al Donington Park, dove il Senna di sempre diede l’ennesima lezione di guida a tutti i colleghi, portandosi in testa superando 4 auto in un sol giro sotto la pioggia e, naturalmente, con pneumatici slick. In quell’occasione vinse una gara entrata nella storia della Formula 1, utile a ricordare che anche se altri hanno vinto quanto o più di lui, nessuno ha mai vinto come ha fatto Ayrton.

Dopo questa “maturazione”, per così definirla, del grande Magic, nel 1990 Ayrton ebbe il modo e la capacità di recuperare ciò che l’anno precedente gli sottrassero: il titolo mondiale. Sfortunatamente per il brasiliano questo titolo giunse non senza polemiche in quanto centrò l’obbiettivo grazie a un incidente (che, a onor del vero, difficilmente si potrebbe a lui stesso imputare nonostante non manchi chi l’abbia fatto in passato e lo sostenga tutt’oggi), sempre a Suzuka, che coinvolse ancora Alain Prost. Sul fatto i media ed i detrattori si scagliarono contro il brasiliano che, però, riuscì a reggere bene le pressioni e nel 1991, con una McLaren che iniziava a zoppicare di fronte alle arrembanti e supertecnologiche Williams, riuscì nuovamente a coronare il suo sogno mondiale. Nella mia memoria è enormemente rappresentativo l’episodio accaduto al “suo” Gran Premio del Brasile, che fino ad allora mai lo aveva visto esultare sul gradino più alto del podio, vinto con un’auto a cui mancavano i primi 5 rapporti. Magic riuscì a vincere con un mezzo a cui era rimasta la sesta marcia e, vista con gli occhi di chi oggi è abituato ai ritiri in F1 causati da surriscaldamenti anomali segnalati dalla telemetria o perché qualche dispositivo elettronico fa decadere di qualche punto percentuale le prestazioni del veicolo, è abbastanza impressionante. Ayrton riuscì, pur al limite delle sue forze fisiche e psicologiche, a portare a termine quella gara, e a vincerla, con il solo sesto rapporto, sempre per dimostrare quanto, con la propria volontà e forza, potessero esser raggiunte mete impensabili.

I due anni seguenti furono difficili per il campione Brasiliano. La McLaren non era più quella di un tempo e la tecnologia, entrata prepotentemente nella Formula 1 con dispositivi quali l’anti slittamento, le sospensioni attive, l’abs ed i cambi semiautomatici, non riduceva il gap tra piloti bravi ed eccelsi, ma ribaltava gli equilibri. L’auto iniziava a contare molto più dell’abilità del pilota e per l’ennesima volta Ayrton dovette subire sconfitte pesanti sia per la sua fame di vittorie, che per la sua sete di giustizia, che voleva fosse la bravura a decidere chi avrebbe vinto, e non la maggior scaltrezza o fortuna. Nel 1993, l’ultimo anno in McLaren, emblematica fu la prestazione al Donington Park, dove il Senna di sempre diede l’ennesima lezione di guida a tutti i colleghi, portandosi in testa superando 4 auto in un sol giro sotto la pioggia e, naturalmente, con pneumatici slick. In quell’occasione vinse una gara entrata nella storia della Formula 1, utile a ricordare che anche se altri hanno vinto quanto o più di lui, nessuno ha mai vinto come ha fatto Ayrton.

Nel 1994 accadde ciò che tutti sanno e di cui si parla fin troppo spesso. A mio giudizio la livrea blu non gli si addiceva e meno ancora un team che io ho sempre pensato essere troppo “freddo” per uno come lui. Indipendentemente da ciò che accadde il 1 maggio so solo che Ayrton non era contento, né tranquillo in quella stagione, ed è questo che più mi rattrista. Un’auto di cui non aveva fiducia, una squadra che non era il “suo” team di sempre, la sfortuna di aver raggiunto la tanto sospirata Williams proprio quando le soluzioni tecnologiche che l’avevano resa la più veloce erano state bandite e, ciliegina sulla torta, un astro nascente chiamato Michael Schumacher che lo insidiava anche grazie alla scaltrezza di Briatore ed all’efficacia della Benetton Ford.

Nonostante generalmente io frequenti i circuiti per il gusto di correrci, qualche anno fa andai ad Imola solo per vedere la statua in bronzo che lo raffigura, vicino alla quale erano poste tante lettere e testimonianze di affetto appese alla rete del circuito nelle vicinanze del punto in cui Ayrton fece l’incidente. C’era una pioggia sottile ed il cielo era cupo, decisamente coerente con il mio stato d’animo di allora. Della sua scomparsa, a mio giudizio, si è scritto e parlato davvero troppo se paragonato a quanto lo si è fatto della sua vita e delle sue incredibili gesta; l’unica immagine che mi piace ricordare di quelle scene viste e riviste della sua Williams blu danneggiata è quella relativa ad un dipinto dell’artista ucraino Oleg Konin, intitolato “Formula – Alone” che ritrae Ayrton alzarsi da quell’abitacolo fracassato, simboleggiando come lo spirito di quel grande eroe ha proseguito la sua corsa solitaria, alla ricerca della velocità, della purezza, dell’autentica felicità.

Da quel 1 maggio molto si è fatto in nome di Ayrton, in Formula 1 come fuori dal circus. La sorella Viviane, madre di Bruno, si è fatta portatrice dell’eredità spirituale del fratello ed ha fondato, su volontà del grande campione, l’Istituto Ayrton Senna in favore dei bambini brasiliani che difficilmente avrebbero un futuro roseo se affidati esclusivamente alle istituzioni del loro paese. La generosità di Ayrton verso di loro e verso il mondo continua attraverso lei, e non mancano gli esempi di tanti che aiutano e sostengono questa realtà, come ha fatto Kazunori Yamauchi, creatore del simulatore di guida Gran Turismo e Presidente della Polyphony Digital, che ha dedicato ad Ayrton, in occasione del ventennale dalla sua scomparsa, il sesto capitolo del famoso titolo per PlayStation, collaborando con l’Istituto Senna che tanto ha fatto e sta facendo per l’educazione ed il futuro dei bambini brasiliani.

Chi era Ayrton Senna? Un sognatore, un esempio, un concentrato di doti umane e valori positivi, un pazzo che correva sul bagnato più di quanto gli altri avrebbero fatto sull’asciutto, un uomo.

Bisogna vivere con grande forza, grande determinazione, ed affrontare le sfide della vita con grande Amore e Fede in Dio. Sono parole sue. E per questi insegnamenti, suoi e di chi mi ha accompagnato in questa vita, posso solo esser grato a lui e a chi, con l’esempio, mi ha dimostrato che è la strada giusta. Spero di riuscire a fare altrettanto nei confronti di chi, ora ed in futuro, avrò la responsabilità; questo, affinché ogni giorno delle nostre vite, sia sempre un giorno di gioia e rinascita, esattamente come l’equinozio di primavera.

Articolo Scritto da:
Antonio Polizzi
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